Anita Sieff


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Cercasi Anita Sieff.
di Pierluigi Basso Fossali, 2011.

In affanno di parola, ci si rifà spesso alla lista; all’esser primi nell’elenco (aspetto rassicurante della propria posizione nel mercato identitario) o a ripercorrere ciò che sono gli altri a partire dall’elenco di ciò che hanno fatto. Anche quando si vuole essere ricercati o si ricerca qualcosa si usano escamotage per comparire in cima all’elenco. Certo, anche le liste sono aperte, ma assegnano posizioni ed eventuali esclusioni. L’ossessione della lista è stata sdoganata come salutare ammissione che per essere individuati e ascoltati bisogna farsi trovare. È necessario posizionarsi, definirsi. Lista uguale lizza. Anche quando l’elenco è promiscuo, aselettivo: le virtù vengono dopo e se giocano un ruolo, è nel posticipo, partita a latere.

Opere che cercano di superare le precedenti all’interno del catalogo ­ d’artista, aspirazioni artistiche che si inseriscono in un movimento per ­ primeggiarvi, inventario preventivo dei materiali elettivi: nulla di più estraneo al fare artistico di Anita Sieff. Con le liste in mano, si finisce ­ subito la ricerca su questa artista. In grazia alla sua estraneità.

Le opere non stanno necessariamente in un catalogo, ma possono essere mobili parti di insiemi potenzialmente diversi che si ricompongono ­ dentro un preciso spazio: esistono per abitarlo. Gli ismi artistici restano una morfologia di territori emersi e distinti che consente a una poetica di cercare cittadinanza, ma resta l’opzione di abbracciare l’intera geografia di soluzioni per ciò che hanno ancora di sommerso. La lista, poi, ha a che fare con il riconoscimento, mentre in Anita Sieff non ci sono che avanzamenti a vista, proiezioni interrogative, dialoghi intimi al di là di ogni familiarità preliminare. La logica del consumo è quella dell’assoggettamento preventivo dell’identità dell’oggetto, e persino del soggetto o dello spazio in cui si trova. Il consumo è una bolla di senso conclusa in sé stessa che per non essere troppo malinconica deve sempre avere la lista in mano di ciò che ancora resta da consumare. Tornare alla biografia è allora tentare di porre rimedio a questa paradigmatica esistenziale che trasferisce il movimento dell’esistenza in uno spostamento selettivo nello spazio della lista.

Nel tracciare la propria biografia l’esistenza viene restituita necessariamente secondo sbalzi successivi, distacchi tra una forma disegnata e contenitiva e una materia d’emozione e vissuti che ancora sfugge, si ritrae, reclama, ancora e sempre, nuove apprensioni. Mettere al centro del proprio fare ­ artistico questo “resto”, mai definitivamente colmabile, significa per Anita Sieff lasciare che lo scacco della scrittura, del disegno, della composizione si inscriva internamente ad ogni opera. Vi è una sorta di palinodia interna ad ogni forma di “registrazione” della percezione. E questo carattere ­ sfuggente presto si invola in tanti altri raddoppiamenti, in innumerevoli sbalzi: la certezza dei segni – quelli apparentemente domesticati e sottratti agli estemporanei capricci della percezione – si dimostra mera traccia indiziaria di altre trame sotterranee, ordite senza progetto; l’attestazione della percezione – quella che dovrebbe saldare i conti con il presente – si palesa famelica dei territori della finzione, delle superfici distaccate dell’opera, dello schermo, sogna di moltiplicare i piani.

La tridimensionalità, la plasticità del vivere non è un dato di partenza, ma solo il paradossale procedere di questi sbalzi di senso, di radicamento dei valori, dove composizione e percezione, biografia e esperienza si distaccano creando quella sola ampiezza di vita che ci risulta amabile. Già, è così: perché l’attaccamento si può dare solo nelle “giunture”, nelle articolazioni, negli snodi. Ed è proprio l’affettività nell’opera di Anita Sieff a rinaturalizzare questa complessità di prospettive, di aggetti sul nulla, di ponti esistenziali sospesi; è questa affettività a facilitare la tenuta di un’esistenza anche quando non c’è più trama, percorso elettivo. Osservare la compenetrazione della propria casa, del proprio spazio d’esistenza, del proprio intorno affettivo, la dipendenza dolce dai vuoti, lacune che sono già lagune, lidi da attraversare, che sostengono ad ogni mancamento: questo è il primo invito che l’opera di Anita Sieff propone.

La varietà della sua espressione artistica, l’eterogeneità di materiali e tecniche, i sottili rinvii tra le opere, il sincretismo delle installazioni in nulla si propongono come rebus da risolvere, né tantomeno sottendono una tesi generale da reperire. Sono “arredo” di uno spazio liminare tra l’intimità della casa e la profondità aperta del “comune”. Anzi, come si diceva, l’idea del limine andrebbe sostituita con quella della compenetrazione, se non fosse che questa crea appunto una paradossale convivenza tra la ­ chiusura e l’apertura, il pudore e l’ostensione, il privato e il pubblico. Del resto, è proprio a partire da questa paradossalità che l’opera di Anita Sieff reclama uno spazio mitico in grado di tenere assieme degli opposti, di ­ rendere praticabile la compenetrazione, di inscrivere dentro casa, dentro le configurazioni, gli sbalzi onnipresenti dell’ancora possibile.

In questo senso siamo di fronte a una ­ poetica nient’affatto connessa all’idea di “rifugio” o protesa a uno spazio narcisi­stico; è in seno alla casa che tutto il “fuori” è ancora dispiegabile, e non per una forma di ripiegamento o sforamento mistico, ma per un presidio delle relazioni, per un ­ continuismo tra individuazione e socializzazione, per un allargamento dello spazio comune che non debba assecondare la scorciatoia del codice. L’intromissione delle mediazioni fredde che rendono evanescenti e infine insignificanti le percezioni perseguono in fondo la reificazione di un unico terreno istituzionale di confronto (sia esso quello della legge, della scienza o della religione rivelata).

È sulla base di questo sfondo che ben si può comprendere l’apparizione tematica dell’abbandono; quest’ultimo è la negazione stessa del presidio, del riconoscimento delle relazioni e soprattutto è il massimo agente di depossibilizzazione del fronte esistenziale. Abbandono è allora nell’opera di Anita Sieff non tanto il distacco tra persone, ma la negazione di “casa”, di spazio comune, sottrazione di storia come presidio del futuro.

La proliferazione degli abbandoni lascia tutta una coltre archeologica di frammenti, opere sparute e talvolta frammentarie, appunti e schizzi, che tutte assieme, tuttavia, riescono a intonare un canto a bocca chiusa, che non predica nulla, non articola alcunché, ma riesce a fare consistere quella nube, quell’addensamento di senso minimale che lascia ancora essere il possibile nella sua apertura indefinitiva. Sta qui la generosità dell’amore, nell’attenzione al possibile che il passato non nega ma in realtà sostiene: se vi deve essere palinodia, quella – come detto – è propria solo della ­ composizione chiusa, delle pretese predicative, dello schiacciamento scritturale in un’unica dimensione. L’abbandono, di fatto, si sostanzia spesso in un reclamo spinto al principio di realtà, alla lettera d’addio, alla scrittura della fine. Ma anche le scritture sono senza fine, e lo schiacciamento si moltiplica, diviene sigillo di tante mediazioni diverse, e più si cerca la definizione statutiva del sé che esse paiono consentire, più esse sembrano infine aspergere qualsiasi coesione identitaria con la percezione di un me di radicamento. Le certificazioni sono certificazioni di uno scacco, vittorie di Pirro, su un terreno piatto, scacchiera di strategie senza più sbalzi, profondità di campo, aperture e, certamente, anche ferite.

Tuttavia, se mai c’è salvezza non sta nelle scritture, ma nelle compenetrazioni, nell’accettazione delle dipendenze gravitazionali della propria casa; quest’ultima, come ogni mondo, non è in grado di autointerpretarsi e non può che trovare senso in altri mondi (quello del sogno, dell’immaginazione, dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande). Gli equilibri instabili tra questi mondi di riferimento sono esattamente ciò che individua una coscienza e nutre un pensiero dell’attraversamento. Si tratta di una coscienza di dipendenze e di instabilità, incline alle ironie dolci sul proprio e altrui destino,(1) capace di ammirare la decristallizzazione delle identità nel tempo, la loro ammirevole perdita di forma per tenere il campo ed espandersi. Se c’è un’ecologia in questa poetica essa si sostanzia nel rifiuto di una riduzione oltranzista dell’indeterminazione, che anzi si spinge ad assumere omeopaticamente.

Anita Sieff ama gli specchi che interrompono parzialmente il discorso, le ombre e i loro dialoghi in negativo, gli oggetti quotidiani che tramano ordini silenziosi, le dislessie, le esperienze non confinabili dentro un gioco linguistico esplicito. Di qui, si dipana la sottile aura etica del suo fare artistico, il suo incontrare l’intraducibile, il suo sfidare la voce, l’immagine, il segno che manca. Se c’è del “dire” esso deve sposare il regime concessivo (e nient’affatto incontrovertibile) sotto cui gli eventi si appaiano e sommano. Se c’è cinema o c’è poesia in Anita Sieff, esso si può dare solo a patto di rinunciare alla linearità, all’ordine sintagmatico a senso unico, per abbracciare la tabularità propria dell’immagine, la sua ramificazione di nessi senza orientamenti privilegiati.(2)

Inceppamento di discorso e intermittenza del senso fanno parte di una discrezione artistica confrontata com’è con un’umanità frammentata che ricostruisce esclusione ad ogni eccesso d’autoaffermazione: ecco allora l’idea di un “mosaico bianco”, dove ogni tessera trama mobili relazioni con le altre a partire dalla sua diversa, incidentale reazione alla luce.

“La luce modifica la coscienza perché distrugge la forma” – riporta il titolo di un’opera di Anita Sieff.(3) E correlativamente la percezione viva sottratta alla contemplazione che la cristallizza facendola credere dominante – si fa un tutt’uno con l’azione: perce-azione. Come non c’è nulla da perfezionare nell’arte, così il mondo non s’appaga di alcun modello: non c’è che mobilitazione costante del chiasma corpo-mondo, in una visione monistica e nel contempo componenziale del mosaico bianco che si dà attorno e dentro di noi.

Il cicaleggio (4) è l’attivazione brulicante e polisensoriale dello spazio, topologia den­sa di presenze e nel contempo totalità integrata, coltre di suono e sciame in apparente fuga, territorio abitato e landa selvaggia, estensione definita e campo di indeter­minazione. Anche sul piano temporale il cicaleggio appare come una figura chiarificatrice; il sincronismo delle azioni convergenti e delle procedure non appare sensato in questa composizione di suono stocastica e contemporaneamente integrata e pulsante, capace di esemplificare una durata, un’estensione della presenza, anzi della compresenza. Inoltre, il cicaleggio non è un ­ paesaggio sonoro, qualcosa che un punto d’ascolto costruisce come uno scenario che fronteggia, essendone separato da una certa distanza; il cicaleggio è avvolgente e illocalizzabile, nel mentre non sembra intaccare il tempo disponibile per qualsiasi altra iscrizione eteronoma: lascia spazio all’iniziativa di voce, al prendere respiro, al riso come al lamento. Appare come una riserva di tempo, un tempo interstiziale di­sponibile, serpeggiante lungo le innumerevoli fonti di emissioni, nessuna delle quali impegnata in una promessa di continuazione. Un tempo di accoglienza in cui il mondo stesso appare rispondere alla domanda “Hai tempo per me?”,(5) domanda che invece, in chiave interpersonale, può divenire strategia di intercettazione ossessiva dell’alterità che porta ad esaustione, suo malgrado, la disponibilità dell’interlocutore.

Il cicaleggio disegna poi una figuratività che tende all’astrazione, alla pulviscolarità e all’indeterminazione; come è stato spesso notato dai critici, c’è nell’opera di Anita Sieff una tentazione indubbia all’astrazione, ma è astrazione vista in filigrana, talvolta vista persino attraverso la densità figurativa dell’aneddoto, della vicenda umana che ha nome e cognome. L’astrazione ricerca una sorta di struttura-ponte che possa mettere in rima le esperienze e, se possibile, le esistenze; astrazione come ricerca di una traducibilità, di una messa in risonanza che privilegia la paradigmatica inter-identitaria piuttosto che la sintagmatica del singolo.

L’opera di Sieff tende ad adattarsi allo spazio in cui si realizzano le esposizioni, concertando, insieme alle specificità del luogo, nuovi possibili cammini di senso per lo spettatore; in una tale prospettiva, il nuovo progetto Psyche non può “dimenticare” la presenza del La nascita di Venere di Ettore Tito o del ciclo di dipinti di Giulio Aristide Sartorio (Il Poema della Vita Umana), dato che questi “abitano” Ca’ Pesaro e nutrono relazioni ora di nuovo vive con il mito ridestato da Anita Sieff. Inserire all’interno del film queste opere non è opzione che costruisce un effetto di citazione, di dialogo poetico (all’insegna di un retaggio simbolista), bensì riproduce intestinamente un respiro spaziale che è proprio dell’esposizione e dell’esperienza dello spettatore così come moltiplica gli aloni del tempo che ogni artista ha lasciato nello stesso luogo. Queste compresenze mutuamente interrogative sono la chiave anche per comprendere le relazioni tra installazioni video, disegni, oggetti, fotografie che caratterizzano le esposizioni di Anita Sieff; ecco allora che in modo perfettamente parallelo l’artista concepisce le proprie poste semantiche come rivelatorie di passaggi, di topic esistenziali. Anche dei miti interessa questa nudità strutturale, queste linee astratte che come risonanze trans-storiche offrono terreni comuni alla personale interpretazione. Il mito non è quindi ripreso come destino segnato o come eterno ritorno della stessa storia; più che fatale, il mito è il piano in cui giocare la controfatalità, il ­ terreno fertile per un punto di vista correttivo e emancipatore, ispirato dalla fame di un altrove, un altrove a ben vedere sempre disponibile. L’astrazione è il richiamo di una trama di relazioni di base da cui aspettarsi la densità dettagliata di una reazione, di una risposta, di un approfondimento.

Come in un’icona, le immagini di Anita Sieff sono composte attraverso una prospettiva rovesciata, una prospettiva che colloca perciò il punto di vista internamente allo spazio rappresentato: guardiamo quello che si vedrebbe stando all’interno di ciò che ci si mostra. Questa adesione, questa sutura è poi moltiplicata, pluralizzata, secondo punti diversi per cui, infine, è il mondo rappresentato che integra le po­si­zioni, e non invece un’unica posizione di osservazione ad integrare il mondo. Quando entrando nello spazio espositivo di Hai tempo per me? scopriamo il titolo sotto forma di scritta rovesciata che uno specchio ci aiuta a ribaltare, ecco che il nostro volto riflesso, appaiato alla domanda, ci porta all’interno ­ dell’opera malgrado questa pareva coincidere con lo spazio in cui l’installazione è inscritta. Perché l’astrazione sia efficace deve ­ divenire interrogazione personale.

È in una tale prospettiva che si deve inquadrare anche l’ultimo lavoro ­ dell’artista, ovvero Psyche (2011). La ripresa di questa celebre vicenda mitica non intende limitarsi ad una attualizzazione in chiave contemporanea, ma nemmeno nutre l’aspirazione di compierne un’esegesi. Piuttosto intende riaprire i corridoi della storia, quelli che corrono dal passato al ­ presente;(6) e ciò per liberare il mito da ogni cristallizzazione di senso restituendogli invece un potenziale interrogativo e un ancoraggio percettivo. Rispetto a una narrazione apocrifa per eccellenza quale il mito, la mano d’artista della Sieff non intende aggiungervi alcun nuovo solco o variante personale, per tenere invece pienamente “areato” lo spazio di senso che lo pervade. Il fruitore viene invitato a porsi in simbiosi con i personaggi, nessuno dei quali ha la parvenza di prevalere sugli altri, essendo la posta ultima e la vita stessa della struttura mitica quella dell’interrogazione ­ reciproca dei caratteri. Il destino personale è aperto e nel contempo frutto dell’intersezione con tutti gli altri destini; ma la crudeltà del mito ha come altra faccia della medaglia una visione etica che pare anticipare ­ l’intersezione ultimativa dei destini.

Per contro, la trama aneddotica dell’esistenza, a cui Anita Sieff cerca di rimanere legata, sposta questa intersezione ultimativa e spesso tragica dei destini in un pattern di scelte individuali che sono trama e ordito di una successione di intersezioni ininterrotte, alcune di infima portata altre di vastissima risonanza.

In conclusione, il monito ultimo lanciato dall’opera di Anita Sieff è quello di non risolvere la posta del conoscere l’altro nel sapere; non appena si cerca di ridurre a contenuto l’esperienza dell’alterità o di desegretare la realtà, ci si ritrova davanti alla nudità di una perdita. Eros e Psiche diviene così il terreno d’esemplificazione di atti d’amore siglati dall’adesione a ciò che non si può “comprendere”: aderire al corpo invisibile dell’amato, aderire all’ombra, aderire a una memoria che non può essere più ridestata come discorso.

Psyche, Ca' Pesaro - Galleria internazionale d'Arte Moderna, Venezia, 2011.


Il Sentire č il Parametro del Contemporaneo.
di Marco Ferraris, 2011.

“Il sentire come parametro del vivere contemporaneo” è la frase di Anita che mi ha fatto innamorare di lei.

La soggettività è una conquista del Novecento. Io credo che a livello di percezione solo l'umano moderno sia in grado di vivere questo stato. Il significato del portato è enorme perché dischiude all'impermanenza della dimensione psicologica e all'azzardo della proiezione soggettiva. La crisi nasce dall'impossibilità che ha la soggettività di trovare riferimenti esterni perché non ha ancora imparato ad usare il sentire come parametro. Il sentire non pretende di essere omologato, perché non può confrontarsi. La soggettività non trova applicazione sociale nella condivisione di appartenenze e deve quindi misurarsi con la coscienza di sé e questa è una dimensione anomala per l'idea preconcetta che abbiamo di comunità. La chiave e conquista del contemporaneo è dischiusa in questa zona così impraticata, così marginale da quelle che sono le norme di socializzazione.

Il mito è quell'esperienza riconosciuta oggettivamente e riconoscibile soggettivamente. Per questo è una dimensione comune ed è ancora uno strumento analogico importante. Ma ora il mito diventa la piattaforma del vivere, perché la nostra società ci impone un ritmo mitico senza la sostanza intrinseca al mito poiché le istanze che si dischiudono sono meramente consumistiche. Il problema del contemporaneo è che confondiamo i nostri desideri, un po' anche per questioni di budget, con il ritmo impostoci dai mass media di dover appartenere al grande mito collettivo, pena il farci prendere da una tristezza ontologica per incapacità di rientrare in questa proiezione. Non è un caso che uno dei brand più vincenti, utilizzi come statement la frase “just do it” ma paradossalmente ci inviti alla libertà inchiodandoci all'atto consumistico dell'identificazione con il ­marchio. Come se non bastasse un altro noto stilista, utilizzando in modo più sofisticato l'idea di libertà, immette nel mercato scarpe mutuate dall'esercito polacco semplicemente contraddistinguendole con un semplice cerchio rosso e rendendole riconoscibili agli happy few come merce ­speciale. Il percorso psicologico è questo: “Io ho il tempo e la sofisticazione di riconoscere queste operazioni intellettuali e tu il denaro per comperarle nella prospettiva di essere riconosciuto dalla cerchia degli happy few ed appartenere così di diritto al mito contemporaneo.” È tuttavia importante capire cosa stia dietro all'idea che noi abbiamo del mito e a ciò che promette. Il mito classico greco era un avvicendamento di varie fasi del sentire che portava a una comprensione globale del tema in esame. Il mito contemporaneo consumistico si fonda sull'inappagato, su quel frammento che non vuole essere in relazione con il tutto. Come dice Barbara Kruger: “I shop therefore I am” non risolve la dimensione esistenziale dell'essere. Eppure vivere mitologicamente, come se ogni istante fosse paradigmatico, aprisse differenti porte di un mondo a noi sconosciuto, è fondamentale. L'artista è lì, in quel luogo solitario ma eroico come un pioniere. Ritengo che lo sia sempre stato nel corso degli anni perché ha sempre prestato la sua voce alla soggettività del sentire, la sua lirica all'eccedenza dei sentimenti.

Il problema dell'artista paradossalmente però è il bisogno di riconoscimento che non può che essere riflesso da un riconoscimento economico dello stesso sistema dell'arte. Una forzata compressione dentro ad uno schema che ne legifera i confini e le modalità di applicazione, dove il sentire si allinea alla convenienza di un volere oggettivo lontano dalla sua naturale origine soggettiva, implodendo a volte in una sorta di farsa. L'artista non deve volersi riconoscere, è questo il suo limite. Deve bastarsi. O forse il sistema dell'arte non deve cercare di espandersi troppo nelle dimensioni di mercato perché con i mass media il livello di comunicazione non può che pretendere di essere mitico per l'urgenza di attrarre il più grande pubblico. Il portato mitico di un artista non sta nella sua capacità di proiettarsi come universo di valori per essere inglobato nella comunicazione distorta dai media. Può solo ritirarsi e sperare di vivere nei cuori di quei pochi che risuonano ancora perché hanno coltivato e custodito gelosamente la loro intimità, la loro anima. La loro soggettività.

Quando la soggettività diventa l'ardire di esprimere la propria passione allora è il dispositivo più interessante che possa esserci. È quello che fa scattare un coordinamento di processi psichici con quelli fisici in termini di sincronia e non di casualità. Sincronicità significa allora simultaneità di un certo stato psichico con uno o più eventi esterni che paiono paralleli significativi nella condizione momentaneamente soggettiva e, in certi casi anche viceversa. Il fenomeno della sincronicità come afferma Jung è la risultante di due fattori: “1) una immagine inconscia si presenta direttamente (letteralmente) o indirettamente (simboleggiata o accennata) alla coscienza come sogno, idea improvvisa o presentimento; 2) un dato fatto obiettivo coincide con questo contenuto.” Come si crea la coincidenza? La rappresentazione coincidente prende le mosse dall'inconscio e rientra quindi tra quelle idee che sono indipendenti da noi e sono causate da altro e non dal proprio pensiero. Anche Goethe pensa in termini magici riguardo agli eventi sincronistici. “Noi tutti abbiamo in noi un che di forze elettriche e magnetiche, e come il magnete esercitiamo un potere di attrazione o di ripulsione a seconda che veniamo in contatto con qualcosa di uguale o disuguale.”

La causalità che nel nostro mondo occidentale ha tanta importanza si è conquistata questo ruolo primario solo negli ultimi secoli oscurando ­sempre più un mondo fondato sui valori della metafisica. Da tempi immemorabili esiste invece nella filosofia cinese il concetto del Tao, che potremmo intendere come senso. Il Tao, senso, permea il pensiero cinese e ne produce una concezione del mondo totalmente diversa dalla nostra, al limite di una concezione fenomenica. La realtà per loro è una dimensione concettuale perché nelle cose stesse si cela una sorta di ordine implicito.

E mi viene da fare un parallelo con la precedente mostra alla Fondazione Querini Stampalia che Anita Sieff ha chiamato Ordine di senso in onore a questo vuoto che implica la potenzialità germinativa del nostro sentire e del nostro agire.

Psyche, Ca' Pesaro - Galleria internazionale d'Arte Moderna, Venezia, 2011.


Psyche
di Giulio Alessandri,2011.

Anita is on her way,

she follows a crooked path,

and she gathers encounters,

to be seen through theyr opacity

with only one eye.

Doing so, what she collects

and who she meets

are continuously

refrased, reenacted, redefined.

As the path leading us inside the torqued spyral sculptures by Richard Serra, Anita’s way is a journey inside the form, an introvert path towards Psyche.

Because the inner work, ‘labor inter’, is a labyrinth and a loss of oneself.

This time Anita examines the myth of Eros and Psyche and draws an extract or maybe a treatise made of words, sounds and images in motion, in settlement, searching for their narrative combination.

Yet we know that the myth of Eros and Psyche is also a platonic allegory: the human soul, Psyche, finds her joy and agony in Eros; furthermore, she is tirelessly urged to account for what she cannot know and the more she longs for truth the more it flees from her.

We do not know through desire and yet only because of desire: this seems to be the encoded message in the allegory.

The path to the inner world and to downward is Tamas: the path of Psyche.

Reflections generate further reflections that do not coincide, thereby causing difference and relationship. What exists between Psyche and Eros is most of all -difference and relationship.

The space in between the observer and what is being observed, in other words, the act of seeing that produces which is seen, constitutes Anita’s language, even in its interdicted, prohibited, unfulfilled form. Eros cannot be seen by Psyche.

Yet Psyche dares to see Eros because of vanity, arrogance, indulgence, thirst for knowledge or plain superficiality.

And the matter of seeing, looking at, ascertaining, unveiling is known to be subject to prohibition, to divine interdiction. Eros is concealed to his lover’s eyes.

Of all the things concerning Eros, Psyche cannot live a visual experience, but she can meet her lover’s body every night at will because Eros loves Psyche and Psyche loves Eros.

Psyche too, like Eve, leads the lovers outside the Edenic circle for the love of knowledge or of curiosity.

 

And wonderful Psyche cannot see the face of Eros.

While Eros can see her and, therefore, falls in love with her.

And Eros is divine and Psyche is human. Here lies the disruption, the subversive matter that upsets the Olympic peace affecting the vast ­ kingdom of Venus.

So well talks in her brainless thoughtfulness Psyche of Capua, known to D’Annunzio, who believed to be Eros, saying that, because of Eros, Psyche is called to a thoughtful erasure of her psychic dimension, to a sort of radical scraping of thought, to a devastating annulment of herself in Eros and for Love-Eros.

Anita’s interest lies in the restoration of the aporia inherent in this lovers’ couple who can love each other as long as they do not know each other fully.

Shadow, darkness are their friend.

Beneath the couple of lovers we perceive the intellectual soul searching for light, copulation, harmonization and overcoming of the opposites, erotic radiance of knowledge.

This is the art of unveiling that recognizes the possibility of translating an idea in the shape of a thing and a thing in the shape of an idea. Explaining the myth or, rather, spreading it out on a white screen like a sheet carefully washed, perfumed and sun-dried.

In Anita’s work we recognize the archetype of what Jung describes as “… Eros is interweaving of textures… Eros is relatedness.” [James Hillman, Anima, Milan, 2002, page 34].  We can say that Eros is the narrative centre of her work and at the same time its main actor as Eros animates the Soul.

 And Psyche is the soul and Eros is the spirit.

And time should dissolve so that they can love each other.

And then friendly Jupiter intervenes

And to the lovers he restores time

Stripping mortality off Psyche.

Could this be the way that the Soul reaches its immortality?

 If so, if the immortality of the Soul is reached through divine intervention, then the little, vagrant, tender, pallid soul will be destined ab aeternum.

‘Rrose Selavy’ someone said, sensing a happy ending.

 

Psyche, Ca' Pesaro - Galleria internazionale d'Arte Moderna, Venice, 2011

(ITA)

Anita è in cammino,

e procede per una strada ricurva,

e raccoglie quello che incontra,

e guarda e traguarda,

e scava, cava e ricava,

restituendo diversamente,

le cose raccolte e le persone incontrate,

ricucite, ricamate, ritramate.

Come il percorso che ci porta all’interno delle sculture ritorte e a spirale di Richard Serra, la via di Anita Sieff è un percorso all’interno della forma, introverso in direzione di Psyche.

Perché il lavoro interno, il labor inter, è anche labirinto e perdita di sé.

Questa volta Anita si è addentrata nel mito e dal mito di Amore e Psyche, il più squisito, ha tratto un estratto o forse un  trattato di parole, suoni ed immagini in movimento, in assestamento, alla ricerca della propria combinazione narrativa.

Ma il mito di Amore e Psyche si sa è anche un’allegoria platonica: l’anima umana (Psyche) ritrae nell’amore (Eros) la sua gioia e il suo tormento; inoltre è spronata infaticabilmente a darsi ragione di ciò che non può conoscere e la verità le sfugge quanto più la brama.

Non si conosce per desiderio e che per desiderio, sembra essere il ­ messaggio criptato nell’allegoria.

La via all’interno e all’ingiù è Tamas: la via di Psyche.

Osservazioni generano osservazioni che non coincidono, si generano così differenza e relazione. Tra Psyche e Amore vi è soprattutto differenza e relazione.

Lo spazio di mezzo tra l’osservatore e ciò che è osservato, in altre parole l’atto del vedere stesso che produce ciò che si vede, costituisce il linguaggio di Anita, anche nella sua forma interdetta, proibita, mancata. Amore non può essere guardato da Psyche.

Ma Psyche osa vedere Amore per vanità, hybris, condiscendenza, desiderio di conoscenza o semplice superficialità.

E su questa materia: il vedere, il guardare, il constatare, il rivelare si sa vi è la proibizione, l’interdizione divina. Amore è velato allo sguardo ­ dell’amante.

Di tutto ciò che riguarda Amore, Psyche non può fare esperienza visiva, può però incontrare il corpo dell’amante ogni notte a suo piacere perché Amore ama Psyche e Psyche Amore.

Anche Psyche come Eva porta gli amanti fuori dal cerchio edenico per amore della conoscenza o della curiosità.

E Psyche meravigliosa non può dell’Amore vedere il volto.

Mentre Amore la vede e perciò se ne innamora.

E Amore è divino e lei umana. È lì il turbamento, il sovversivo discorso che perturba la pace olimpica toccando l’ampio reame venereo.

Dice bene la Psyche di Capua con la sua decerebrata pensosità, conosciuta da D’Annunzio che si pensava Eros. A dire che Psyche per Amore è chiamata alla cancellatura pensosa della propria psichicità: ad una sorta di  radicale raschiatura di pensiero, di annullamento rovinoso nell’Amore e per Amore-Eros.

Anita è interessata alla restituzione dell’aporia insita nella coppia degli amanti che si possono amare solo a condizione di non conoscersi pienamente. A loro è amica l’ombra, l’oscurità.

E sotto alla coppia degli amanti vediamo l’anima intellettuale cercare la luce, la copula, la coniunctio oppositorum, la luminosità erotica della conoscenza.

E tutta qui l’arte del disvelamento che sa riconoscere la possibilità della traduzione di un’idea in forma di cosa e di una cosa in forma di idea. Spiegando il mito o dispiegandolo piuttosto su di uno schermo bianco come un lenzuolo ben lavato e profumato ed asciugato al sole.

Nel lavoro di Anita si riconosce l’archetipo, quello che Jung descrive come “… Eros è intreccio di trame… Eros è relazione” (James Hillman, Anima, Milano 2002. pag. 34). Potremmo dire Eros il centro narrativo dell’opera ed insieme la figura agente poiché Eros anima l’Anima.

 

E Psyche è anima ed Eros animo.

E perché si amino sia sciolto il tempo.

E Allora Giove interviene amico

Ed agli amanti ridona il tempo

levando a Psyche mortalità.

 

Che sia questo il modo con cui l’Anima giunge alla propria immortalità?

Se così è, se l’immortalità dell’Anima si ottiene grazie all’intervento ­ divino, ebbene quell’animula, vagula, blandula, pallidula, sarà ab aeternum destinata.

Rrose Sélavy diceva qualcuno intuendo il lieto fine.

Psyche, Ca' Pesaro - Galleria internazionale d'Arte Moderna, Venezia, 2011

 

 


Anita Sieff - La coscienza del vivere.
di Chiara Bertola, 2010.

Quale sentire riconosco nel frastuono della realtà contemporanea? A quale linguaggio devo prestare ascolto? Che valore hanno le immagini dei sogni rispetto a quelle della realtà? Quale coscienza riesco ad avere dell'impermanenza della vita?

Questo il tenore delle domande sollecitate da "Ordine di senso", la mostra di Anita Sieff pensata e "cresciuta" negli spazi e nella storia della Fondazione Querini Stampalia. L'artista propone di seguirla su un cammino intellettuale e visionario che simbolicamente mette al centro i fenomeni che caratterizzano gli emisferi del nostro cervello - quello destro del sogno, delle emozioni e quello sinistro della veglia, della logica - per inoltrarsi nell'intimità profonda dell'io, quindi attraversare le emozioni e giungere alla coscienza soggettiva «molto spesso addormentata anche se nello stato di veglia».

La mostra si compone di video, di racconti disegnati e scritti, di report di sogni, di mappe astrologiche, di oggetti, di talismani, di lettere, di fotografie, di voci, di odori, di suoni, di luce, di rosso e di oro... Ogni frammento esposto porta a dimostrare come la soglia sulla quale si rappresentano e animano le visioni del nostro sentire, sia sempre fluida e in costante trasformazione.

La mostra di Anita Sieff è un'esperienza che avvicina a quel "confine" cui è possibile avere accesso soltanto a costo di non tenersi nei limiti. Perché questo è forse quello che ci chiede prima di tutto l'artista: abbandonare il problema dell'orizzonte unico, per analizzare la frattura, il margine, le trasformazioni, le relazioni. Andare alle origini, recuperare la Storia, diventa, come sottolinea l'artista, «il modo per riconoscere la bontà di un piano che ci ri-orienti e conforti nel farci approdare al nostro destino personale».

Molto del suo lavoro si è nutrito di saperi trasversali, percorsi occulti e dottrine dimenticate come l'Alchimia e l'Astrologia o di quelle teorie scientifiche più rivoluzionarie. È sensibile, per esempio, a quell'indeterminazione su cui si basa la fisica dei Quanti: un qualcosa (o un qualcuno) s'individua non più nella chiusa e rigida relazione di causa ed effetto newtoniana, ma tenendo conto di una serie di stadi di reazione e di condizioni di mutabilità non solo spazio-temporali. In tale prospettiva una cosa è sopra, sotto, ma anche di lato, dentro, fuori...

La realtà di fronte alla quale ci pone quest'artista è, infatti, discontinua, caotica ma soprattutto sempre in trasformazione. È come una realtà microfisica della quale, nel momento in cui si cerca di osservarla e comprenderla, sfuggono le regole.

Vivere la realtà non significa essere identificati dai fatti che la compongono: Sieff ci indica quell'altro modo, centrato sulla consapevolezza dell'osservatore o del percettore, sullo sguardo che non porta attribuzione. Da questo punto di vista i fatti sfilano, accadono incessantemente, nascono e muoiono alla percezione. Diventa evidente, se così viene osservata la realtà, il principio dell'impermanenza, dell'inconsistenza, della transitorietà, della vacuità di tutto il manifestato. Anita entra dentro quest'inconsistenza e la sua mostra è un percorso in cui tutto viene sospeso per entrare e continuare a trasformarsi in qualcosa d'altro finché io, riconoscendolo, non gli ho dato un senso.

Così, la narrazione o meglio le narrazioni, i piani sequenza del film della sua installazione principale, " Ordine di senso ", sono percorsi da un moto spezzato, secondo cui le immagini non seguono un fluire lineare, ma piuttosto una proliferazione di tragitti e di direzioni, in un'apertura continua di prospettive inaspettate e imprevedibili.

Ordine di senso è formata da tre schermi su cui scorrono le immagini di tre stati della nostra mente: la veglia (l'attenzione, la logica di un racconto lineare ), il sogno (le apparizioni dell'immaginazione) e la coscienza (la percezione di sé); in tale rappresentazione l'artista ha voluto insinuare il sospetto che di questi tre livelli non si riesca mai ad avere una completa unità, mai la simultaneità dei registri.

Accettando l'impermanenza come principio base dell'esistenza, sappiamo che possiamo fluire e muoverci con le circostanze eternamente mutevoli della vita, anche se niente succede mai veramente per caso, ed ogni cosa prova che ognuno procede per diventare ciò che è. I pensieri, le emozioni, le azioni, sono sempre lì, in un flusso incessante che scorre nel presente; le cose che sono accadute sono diventate memoria, ma sono ancora disponibili, testimoni pronti per ogni comparazione e connessione; quelle che accadranno sono anch'esse lì, come prefigurazione, desiderio, sogno, proiezione. Dodici persone camminano avanti e indietro in un enorme magazzino dismesso. Sono attori, alcuni vestiti con abiti di scena, altri con l'abbigliamento di ogni giorno. C'e un uomo con un cappello di paglia e occhiali neri che tenta di imporsi come regista, ma nessuno gli bada. Il film, come mi rivela l'artista, nasce da un sogno che lei stessa ha realmente fatto, in cui è dentro un set dove gli attori stanno aspettando invano il loro regista. Un tema ricorrente nella storia del cinema, ma che questa volta è usato come pretesto, utile soltanto ad accentuare e rappresentare lo stato ambiguo tra la finzione e la realtà, per cucire tempi diversi della storia con quelli del presente. L'attesa degli attori diventa un felice pretesto che dà loro tempo - la scena si svolge anche nel Palazzo della Querini - e consente all'artista di risolvere gli andirivieni tra la storia e la realtà, ad esempio di connettere il passato con il presente facendo incontrare uno degli attori/Andrea Querini con il fantasma di Elena Mocenigo sua moglie. In quest'attesa infinita del regista, gli attori riescono a darsi tempo per "vedere" e mettersi all'ascolto di qualcosa che non avrebbero mai nè visto nè udito... Nelle sale del Museo, la mostra di Anita Sieff continua con quattro installazioni sonore e non è un caso che in una delle stanze ci sia una voce che insistente e malinconica dica, in più lingue, «hai tempo per me». Già... darsi tempo...

Riconosco in questo procedere dietro la camera da presa di Anita Sieff, l'insegnamento del suo maestro, Michelangelo Antonioni, con il quale l'artista ha collaborato in diverse occasioni e a cui questa mostra è dedicata.

«Per quanto mi riguarda all'origine c'è sempre un elemento esterno, concreto, non un concetto, una tesi, e c'è anche un po' di confusione, all'origine probabilmente il film nasce proprio da questa confusione... La difficoltà consiste nel mettere ordine» (Michelangelo Antonioni).

Ma cosa significa per quest'artista mettere ordine? In un periodo in cui a scrivere la Storia sono soprattutto i media, riuscire a raccontare la propria storia significa emanciparsi dall'omologazione e dall'appiattimento che l'informazione impone disattivando la nostra coscienza; significa formarsi un'immagine capovolta del potere, smettere di credere che ci parlino di libertà tutti coloro che oggi vogliono farci dire chi siamo, cosa facciamo, cosa dobbiamo ricordare e cosa abbiamo dimenticato, quello che non dobbiamo pensare, quello a cui dobbiamo credere o non credere affatto.

Riscrivere un proprio "ordine di senso" significa, per quest'artista, darsi la possibilità di un proprio destino, chiedere a ognuno di non fidarsi dei dati ricevuti e di un unico parametro di interpretazione ma di dare valore al proprio sentire.

Ecco perché, per Anita, il sentire è il parametro del contemporaneo. Solo i nostri sensi - quelli del sentimento e dell'intuizione - danno il tracciato e la mappa su cui muoversi. Un po' come dire: è necessario fare ordine per poter avere chiarezza.

Anche nell'incontro con l'opera il visitatore può elaborare, portare in sé e con sé significati diversi, contribuendo anch'egli a dare un ulteriore ordine al senso delle cose.

Entriamo per esempio nella stanza che contiene Interni . L'opera nell'angolo a parete è composta da tante piccole tele bianche quasi a formare idealmente la sagoma di un cervello. Sulle telette sono disegnate con matita sottile e lieve sagome perlopiù di vasi, ciotole, bottiglie, contenitori che si mischiano a forme di cervello, carciofi, finocchi, ananas. Il ritmo pacato della trama fitta delle tele bianche, è acceso ogni tanto dalla presenza di alcune tele rosse che, incandescenti, catturano l'attenzione e ci mettono in allerta, percorrendo l'intera superficie dell'opera.

Tutta la grande parete si compone in un caos di immagini, pensieri, sogni, parole e disegni, dove i linguaggi entrano e si trasformano uno dentro l'altro: la scrittura diventa disegno e le immagini si riempiono di parole. Alcune fotografie, poi, segnano non dei punti fermi, ma solo delle indicazioni di ritmo da imprimere alla sequenza caotica delle figure, al fluire delle lettere e dei segni.

Ma esiste davvero una divisione e una distinzione tra i grandi discorsi come scienza, arte, storia... o tra le discipline come poesia, letteratura, pittura, arte, cinema? Anche queste divisioni, per Sieff, rimangono delle regole normative, dei modi per istituzionalizzare i discorsi e rivelano come sia necessario abbandonare i tracciati imposti dalle schematizzazioni. L'operazione di creazione dell'opera, per lei, irrompe come un evento che smaschera tutte le costruzioni a priori che sembrano regolamentare e ordinare i linguaggi.

Da sempre l'arte è considerata una forma del narrare, ma vedendo adesso, tutta insieme, l'opera di Anita Sieff, mi è chiaro come questa vocazione dell'arte stessa non sia una storia di risposte bensì, piuttosto, una storia di domande, di echi, di narrazioni incrociate tra culture, memorie, opere e soggetti diversi.La dimensione della percezione che l'artista attiva nella sua opera consente quell'esperienza in cui è già inscritto il racconto di una vita, dischiudendo   ed aprendo a nuove possibilità che il pubblico ripercorre e   ridefinisce a sua volta.

Nell'attraversare la mostra si ha la sensazione di essere dentro il fluire dell'esistenza, e di sentirne tutta la complessità crescere e trasformarsi. L'artista restituisce quel gigantesco affresco entro cui la vita di ognuno emerge ogni volta dai diversi stadi del sentire cosciente, reale e del sogno. È come una grande narrazione in cui ognuno ha la possibilità di definire la propria identità personale; un'identità che si costruisce al margine tra la scoperta e l'invenzione.

Ordine di Senso, Fondazione Querini Stampalia, Venezia, 2010.


Prove di una “drammatica”
di Stefano Coletto, 2010.

Quello che colpisce dei lavori di Anita Sieff sono i tentativi di una “drammatica” che attraversa l’esperienza artistica quando questa si muove in stretta connessione con la vita; se esperienza artistica significa ricollocare e rinarrare le persone, i luoghi, le forme del proprio esistere, l’arte della recitazione e delle istruzioni sulla recitazione diventa un campo di forze in cui si gioca questa pratica.

Tuttavia il gioco è complesso; studiare una “drammatica” per la propria vita, in cui quindi il sé che costruisce la regia ricade sempre nello spazio che deve determinare, nella temporalità del film che deve editare, significa trovarsi all’interno di due condizioni radicali.

La prima mette in discussione la possibilità di un insieme di regole recitabili che sia esente da tensione, in quanto solo per tentativi si può costruire una rappresentazione della vita da un punto di vista interno alla vita stessa; quindi “veglia”, “sogno”, “coscienza” sono i tre livelli di visione che sconquassano ogni recita e rappresentazione.

La seconda è collegata al senso della parola ‘“drammatica“, da “dramma“, che signica in senso etimologico “azione”; il vivere in questo senso è la collezione di tutte le nostre azioni e dei nostri drammi, appunto, che si rincorrono, che tumultuosamente emergono dal nostro io, oppure che lo travolgono ogni giorno come ogni micro evento biologico che agisce sul nostro spazio psichico.

Per questa ragione, le corrispondenze tra un soggetto che agisce e si relaziona in ogni istante al mondo esterno sono tali che nessun film può tenerle insieme, come nessuno può sedersi senza corpo e senza azione per assistere alla ricerca di un Ordine di Senso mai rappresentabile radicalmente, perchè una rappresentazione rin-tracciabile tanto più è conclusa tanto più è astratta.

Un soggetto immerso e un soggetto diffuso, ancora “sogno”, “veglia”, “coscienza” che diventano disegni, oggetti, luci, che parlano di questo di tre livelli correlati e irresoluti e di questi tentativi di fissare una cornice di spazio, di tempo, in cui il senso naufraga sempre nei rimandi continui. Certo è difficile l”ordine” nel balbettio della narrazione che genera avvolgenti brusii, che sono le tracce di forze che emergono: suoni, voci, musica, strutture temporali in sviluppo che rendono le vibrazioni dell’aria e si liberano nello spazio, raccolgono la nostra temperatura emotiva senza mai misurarla.

Questo accade perché anche nei ritagli musicali la “drammatica” non si chiude, non esplicita le regole ultime e fallisce sempre, perché deve necessariamente fallire se l’impulso che la genera è autentico. Il dramma più ardito e intenso si libera della costruzione formale e della recita imposta per aprire uno squarcio di autenticità e presenza: il pianto infrange l’equilibrio della musica di Mahler, come molti lavori che, coraggiosamente franti, liberano, pronunciano la loro intermittenza di senso.

Solo il desiderio può questo, perché è il desiderio di trovare un senso che ci porta a leggere, a cercare la “drammatica” della narrazione. Un desiderio che si costituisce come dimensione esistenziale e relazionale che appunta, annota, traccia, segna, ci porta a immaginare e disporre oggetti, ad accumulare registrazioni, note, mai archiviabili, sempre rivissuti per cercare di trattenerli prima della loro sparizione nelle immagini.

Credo che per Anita possa esistere una drammatica impossibile del desiderio.

Ordine di Senso, Fondazione Querini Stampalia, Venezia, 2010.


Situazioni della vita quotidiana: riconciliarsi con il presente.
di John Peter Nilsson, 2010.

Nei progetti di Anita Sieff c'è un'atmosfera di malinconia. Ma non una malinconia deprimente o nostalgica. Proprio il contrario: parlano di hic et nunc . Ritorna spesso il concetto di tempo, ma il qui e l'adesso hanno un passato e un futuro. Vivere con il passato e cercare il futuro richiede un equilibrio tra sogni e realtà, tra le infinite possibilità del mondo interiore e i fatti e le cifre dell'esterno.

I suoi film, in particolare, ritraggono personaggi invischiati in relazioni complicate, al tempo stesso legati e alienati gli uni agli altri. Con allegra consapevolezza di sé, Sieff esplora le complessità della comunicazione umana, sia essa tra il reale e l'irreale all'interno di sé, o nei rapporti con gli altri. Dietro la nostra presenza fisica ci sono abissi invisibili di paure e speranze immaginarie. Quelle che Anita Sieff mette in scena sono, a mio parere, piattaforme riflessive utili a lei e a noi per capire perché viviamo.

Durante il periodo Classico si scoprì che le persone diverse possedevano quantità differenti di liquidi corporei e che un eccesso di bile nera induceva a un temperamento eccezionalmente riflessivo. Nell'interpretazione di Aristotele: "tutti gli uomini veramente fuori dell'ordinario, si distinguano essi nella filosofia, nell'arte di governo, nella poesia o nelle arti, sono malinconici – alcuni di loro al punto di soffrire dei malesseri causati dalla bile nera." ( Problemata, xxx, 1, 350 a.C.)

A Firenze, il pensatore neoplatonico Marsilio Ficino si rifece alle categorie aristoteliche nel suo De vita triplici (1482-89). La Chiesa aveva stigmatizzato la malinconia come una malattia mentale, ma Ficino chiamò in causa l'astrologia, da poco scoperta, per affermare che i nati sotto l'influsso del pianeta Saturno sviluppavano un particolare temperamento. Nel corso del Rinascimento,le affermazioni di Ficino furono accettate perché solo il temperamento malinconico si adattava alle idee di Platone sull'entusiasmo creativo.

Da allora, il concetto di malinconia è andato di pari passo con la creatività artistica. L'artista vede qualcosa che un'altra persona non vede o, meglio, l'artista si misura con   l'idea di transitorietà. Nel Romanticismo, attorno a questo artista malinconico si sviluppò il culto del genio. La distanza, il sapere e la riflessione consentono all'artista di non cadere nel panico o nella disperazione di fronte all'incomprensibile o all'ignoto. Al contrario, l'idea di assenza e di transitorietà genera il desiderio paradossale di creare presenza e vita. Questo, pensava Freud, è il matrimonio necessario e armonico di Eros e Thanatos. Secondo lui, le persone inventano artifici di vario genere per scongiurare le proprie angosce legate al passare del tempo.

L'arte moderna dei primi del Novecento vede una testarda affermazione di questa idea di transitorietà. Ma c'era spazio per la riflessione o per la distanza? Nel complesso le persone concorrevano a creare una vita moderna in cui il tempo non era solo denaro, ma anche una mancanza. Una mancanza nevrotica. "Riti di passaggio – così sono dette nel folclore le cerimonie connesse alla morte, alla nascita, al matrimonio, al diventare adulti ecc. Nella vita moderna questi passaggi sono divenuti sempre più irriconoscibili e impercettibili. Siamo diventati molto poveri di esperienze della soglia," scrive Walter Benjamin in Das Passagen-Werk (1927-40).

Anita Sieff nelle sue opere non illustra dei “riti di passaggio”. Nelle fotografie, film, installazioni video o sonore mette in scena, piuttosto, delle situazioni di soglia e lo stesso vale per le sue azioni dal vivo. Svincolate dai generi, non sembrano seguire nessuna logica narrativa specifica. A Sieff non interessano specificamente i collegamenti casuali. Le interessano le persone, la mente umana e la comprensione a volte illogica che essa ha del mondo e di sé. Le persone parlano, ma anche le lacune e i balzi improvvisi del pensiero sono importanti. Anche il silenzio è un ritmo.

Nella celebre composizione musicale di John Cage 4'33" il pianista va al pianoforte e per quattro minuti e 33 secondi non tocca nessun tasto. Si sente tutto, tranne la composizione. Si sente il pubblico che sospira, sbadiglia, bisbiglia… si sentono i rumori tipici della sala da concerto, la strada all'esterno… Il pianista non ha alcuno spazio di interpretazione, se non quello di tenere d'occhio il cronometro. Ciò che si sente è il frutto del caso. Non si sente ciò che è stato scritto dal compositore.

Di fronte alle opere di Anita Sieff penso spesso a John Cage e alla sua particolare interazione tra casualità e solitudine. Penso anche che le sue opere hanno molto in comune con la città di Venezia e le sue incredibili, particolari circostanze. In una lettera al compositore Peter Gast (Rudolf Köselitz) scritta nei primi anni '80 dell' Ottocento, Friedrich Nietzsche scrisse: "Cento solitudini profonde che si ritrovano formano Venezia. Da qui la sua magia. Un simbolo per gli uomini del futuro." È una descrizione tragicamente bella di Venezia. Una città dove individui soli possono vivere insieme. Ma anche una città in cui perdersi, salvo poi scoprire all'improvviso di essere di nuovo al punto di partenza.

Nel capitolo intitolato “Camminare per la città” in L'invenzione del quotidiano (1980, trad. it. 1990) Michel de Certeau scrive: "l'operazione di camminare, del vagare o del "rimirare le vetrine", ovverosia l'attività dei passanti, è trasposta in punti che compongono su un piano una linea totalizzante e reversibile. Resta così soltanto una reliquia, posta nel non tempo di una superficie di proiezione, che pur se visibile ha per effetto di rendere invisibile l'operazione che l'ha resa possibile. Delineando un percorso si perde la memoria. La traccia si sostituisce alla pratica. E manifesta la proprietà (vorace) del sistema geografico di poter trasformare l'agire in leggibilità, facendo però dimenticare un modo di essere al mondo.” (pp. 150-151)

Venezia è una città fatta per camminarci. Camminare è come una metafora del trascorrere del tempo. Ma camminare è un moto del dimenticare? È pure un moto della memoria, del ricordo? È una cosa e l'altra. È uno stato oltre il tempo e lo spazio. È qui e adesso. Noi ci lasciamo qualcosa alle spalle, ma siamo diretti da qualche parte. Oppure, come riflette Joseph Brodsky nel suo libro Fondamenta degli incurabili (1992) il moto dell'acqua è un emblema del fluire della vita. L'uno si confonde nell'altro. Quando qualcosa muore, qualcos'altro nasce. Come Venezia. All'improvviso il mondo esterno alla città cessa di esistere. Io mi avvicino a me stesso. Sono più prossimo alle persone e ai luoghi che incontro. Mi ritrovo coinvolto in un flusso di avvenimenti. Non riesco a separare il reale dall'irreale …

A prescindere dal contesto in cui opera, Anita Sieff crea la sensazione di trovarsi in un qualche tipo di moto - un moto mentale, spirituale. Ancora una volta, il tempo. Si parla del modo in cui le persone, o meglio i pensieri e le emozioni, entrano in rapporto e interagiscono tra loro. La sua malinconia è bellissima. È anche etica. Il mio corpo è la mia prigione, ma la mia anima è libera. È nello spirito della comunione che condivido la mia anima. Anita Sieff crede fermamente nell'energia creativa delle persone che si uniscono. Puoi non essere felice, ma se accetti il qui e l'adesso, se provi fiducia nei confronti del tuo prossimo, anche a te sarà data fiducia.

Nel Secondo Manifesto del Surrealismo (1929), André Breton scrive: "Tutto porta a credere che esista un punto dello spirito da cui la vita e la morte, il reale e l'immaginario, il passato e il futuro, il comunicabile e l'incomunicabile, l'alto e il basso cessano di essere percepiti come contraddittorii. Ora, sarebbe vano cercare, alla base dell'attività surrealista, altro movente che non sia la speranza di determinare questo punto."

Anita Sieff è una surrealista sui generis, ma nella sua pratica artistica si riflette la possibile identificazione di quel punto. Sullo sfondo del mondo contemporaneo e di una esistenza sempre più fugace, la sua è una missione importante. Anita Sieff non è alla ricerca di una verità universale, piuttosto combatte deliberatamente contro l'esistenza spettacolare e sensazionale del presente, e la sua arte è in netto contrasto con le stupidaggini dei media popolari. Anita Sieff è alla ricerca del personale nel pubblico.

Ordine di Senso, Fondazione Querini Stampalia, Venezia, 2010.


Anita Sieff: Forme di Celebrazione.
di Carlos Basualdo, 2008.

Due donne stagliate su uno sfondo di antiche rovine. Parlano. Le ombre disegnate dal sole indolente le seguono sulla pavimentazione romana. La conversazione è frammentata e avvitata insistentemente attorno al senso di perdita. Il tempo è splendido. Non c’è gente in giro nemmeno vestita di toghe, o occupata ad adempiere ai rituali di una repubblica ormai perduta visto che non c’è impero da difendere. Ci sono giusto queste due donne con le loro voci musicali, di età indecifrabile, che parlano appassionatamente di qualcosa che è andato perduto.

Questo è il modo in cui Anita Sieff inizia il suo film “On Public” e come lei annuncia ciò che diventerà un progetto più ampio e sistematico di corti.

Queste serie di film lamentano la perdita di una certa nozione di comunità, ma aprono anche la porta per una sua possibile reinvenzione, come se il lutto possa a volte diventare la forma più efficace di celebrazione. Ma torniamo a “On Public” perché questo è il soggetto di un dialogo scintillante tra le due donne.

Una di queste chiede: “Perché lo hai fatto finire?” L’altra risponde: “Perché era finito” La sua risposta nega ma le sue parole e la sua espressione non sono di negazione ma di gioia. In questo film come in molti lavori di Sieff l’oggetto della conversazione sembra infinitamente astratto. Per il pubblico “on public” potrebbe significare la dimensione pubblica delle relazioni interpersonali, la res publica oppure il fondamento della sfera pubblica come definito ai nostri tempi. Quando una delle donne lamenta la “perdita” di Public lei sembra intendere che qualsiasi dimensione di solidarietà pubblica – la reale possibilità di una comunità – sia già persa. La risposta di Monica Samassa (un’attrice presente in molti film recenti di Sieff) sono giocose e nello stesso tempo cariche di una sobrietà classica. Per lei non ci può più essere Public perlomeno non più nel senso tradizionale. Solamente dopo la presa di coscienza di ciò può emergere la possibilità di un’altra dimensione del sentire, lontana da queste rovine.

“Public” è innanzitutto, ma non esclusivamente, il titolo di un progetto che Anita Sieff ha organizzato partendo dal ’96 fino al 2001 particolamente in collaborazione con la Peggy Guggenheim di Venezia. È consistito in una serie di incontri e discussioni tra un cast di caratteri sempre diversi, che – incontrandosi attorno alla nozione di incontro – è riuscito ad inventare una forma aperta di scambio che potrebbe essere in sé stessa un modello potenziale di comunità. Venezia che emerge in maniera determinante nei film di Sieff è la più piccola delle effettive città cosmopolite. Nello stesso tempo è una città in cui le dinamiche del turismo di massa e la progressiva trasformazione dello spazio urbano in servizi, escludono ogni forma di scambio al di fuori di questa nuova economia di gente e consumi. Attraverso “Public” Sieff cerca di stabilire nuovi rituali sociali in una città che irrimediabilmente se ne è separata.

Fin dai suoi primi film “Missed 1”, ’93; “Missed 2”, ’94; e “People never change”, ’95, Sieff ha registrato ed esplorato le interazioni tra persone – gente che non è mai sola o isolata ma che si trova sempre in contesti urbani. Nonostante ad un primo sguardo il contesto urbano dei suoi film, spesso Venezia e New York, sembrano essere solo delle quinte, presto Sieff rivela come questi scenari pesano su quelle stesse relazioni umane. “Missed” 1 e 2 sono film altamente allegorici relativamente al desiderio , e ci ricordano le “Affinità elettive” di Goethe (pubblicato nel 1809) in cui un numero di personaggi entra in relazione con risultati imprevedibili. Come Goethe, Sieff ci presenta personaggi che vengono in contatto come pianeti che gravitano l’uno verso l’altro, attratti o respinti secondo la loro continuamente mutevole posizione in un universo urbano che minaccia di manipolarli. Il silenzio che si sprigiona da questi due film ci permette di notare gli attori come fossero semplicamente dei corpi (Sieff impiega sempre sia attori professionisti che non). La cinepresa evidenzia questo in quanto li accarezza e fa trasparire il calore che la città emana attorno a loro, come un telo di seta nei toni del bianco e nero. Questi primi film sono girati usando una cinepresa 16 mm, la loro qualità cinematografica – sostituita dalla qualità più basica e meno rifinita del video nei lavori che seguono – evoca un’atmosfera di sogno perfettamente adatta ad un racconto allegorico.

I racconti di “Missed” 1 e 2 esaminano la vita di 2/3 persone che imparano e disimparano il modo in cui il desiderio risponde al proprio sguardo e al proprio corpo in relazione a loro stessi e alla città. Sieff sembra dirci che un film è una costellazione temporale dello sguardo e dell’attesa.

In “People never change” Sieff inspessisce il plot costruendolo come un collage di segmenti disparati che fanno parodia a quelli che sono il Film cosidetti famosi e ai formati televisivi, come i “film noir”, “music clips” e “soap opera” . Il senso generale di perdita comunque prevale, ma ora gli attori parlano realizzando un rituale ripetuto eternamente: si attraggono, seducono, si respingono. Il video è perfettamente costruito per riflettere e ricreare questa situazione equivoca, una situazione definita da separazione, ed in fondo caratterizzata da frustrazione. Mentre la natura inerente e il linguaggio dei film rappresentano il desiderio e le relazioni personali, per Sieff il video come mostrato nel suo lavoro, esclude la possibilità della dimensione pubblica.

Dopo “People never change” è ovvio che Sieff abbia pensato di abbandonare il film e di inventare piuttosto una metodologia che le permettesse di realizzare e registrare rituali spontanei nella vita reale. “Public” sembra le abbia permesso di fare esattamente questo.

Il ritorno di Sieff al film, dopo la lunga interruzione effettivamente frustrante del progetto veneziano, potrebbe certamente essere letto in retrospettiva come inevitabile. Un processo all’interno di quella struttura di desiderio e perdita che è stato così implacabilmente definito nei suoi primi film.

Nel frattempo si potrebbe anche dire che la perdita personale è diventata perdita collettiva – che l’apparente “fallimento” della espansiva e penetrante ambizione del progetto dell’artista sembra prorompere precisamnente nel dialogo tra queste due elegiache perse nelle rovine della Villa Adriana vicino a Roma. Sieff non si prende mai troppo sul serio e per rappresentare questo momento di perdita e profondo riconoscimento simultaneamente fa parodia e onora la convenzione della tragedia classica. Le sue donne – non i suoi uomini – sono eroiche in quanto si confronatano con la perdita e nello stesso tempo rinascono, allontanandosi dalle rovine senza negarle, in un modo veramente nietschiano.

Il modo di essere diventerà il punto di partenza del lavoro più recente di Sieff della serie “Fashion Weather Forecast”, di cui il primo e l’ultimo episodio sono presentati nel programma corrente al Museo. Inizialmente concepito come un “pilota” per una serie televisiva, “Fashion Weather Forecast” 2006 rende lampante in maniera paradossale il disrispetto per il convenzionale linguaggio televisivo. “Fashion Weather Forecast” è non lineare, logorroico, giocoso, grazioso, umoristico e autocosciente. Questa volta Monica Samassa, che è di nuovo l’eroina e che qui sembra continuamente stressata dalla indecisione su cosa indossare, dalla complessità della sua vita amorosa e dalla imprevedibiltà del tempo atmosferico, si impone come un personaggio amabile e memorabile, come se uscisse da una novella di Jane Austen riscritta da Samuel Beckett. I due episodi di “Fashion Weather Forecast” sono esilaranti, in un modo veramente filosofico. Anche quando dovrà confrontarsi con la fine del mondo, nel secondo episodio, Monica non sembra rinunciare al suo ottimismo e alla sua voglia di vivere. Questa serie ha permesso a Sieff di giustapporre il linguaggio di film e video, usando l’uno per riflettere l’altro, facendoci inevitabilmete ricordare la serie del cineasta Jean-Luc Godard. Ma la prospettiva di Anita Sieff è sempre ancorata nella parodia e rappresentata dal modo di vedere il mondo di Monica, una donna attraente nella sua mezza età, per la quale i vestiti stanno significando la possibilità di infinita metamorfosi.

L’immagine conclusiva nel secondo episodio potrebbe essere presa come la perfetta conclusione allegorica di questa serie: Monica perfettamente svestita e nello stesso tempo autoreferenziale ed espansiva, gioca, immersa in uno splendore al di là delle convenzionali nozioni di bellezza emanando calore perpetuo.

Live Cinema/Anita Sieff: Films Philadelphia Museum of Art 2008.


L’Opera come luogo della relazione.
di Chiara Bertola, 2005.

Anita Sieff ha sempre tenuto ferma nei suoi ragionamenti un’idea diventata in seguito portante di tutto il suo fare creativo: l’arte si deve vivere come modalità “di creare lo spazio per poter vivere il tempo”. In altre parole tra la vita e l’arte non esiste nessuna separazione ma tutto si gioca in un’interstizio, così come tra il progetto estetico e quello etico, tra il bello e il buono, non c’è separazione perché sono consonanti e necessari all’esistere. Tutti i suoi progetti, così come anche quest’ultimo del Tarot-Bar , rispecchiano questo pensiero ricreando ogni volta lo spazio in cui l’arte riesce a manifestarsi simbolicamente nel suo valore di reciprocità e farsi opera collettiva: scultura sociale.

Un’altra riflessione che troviamo sempre come premessa in tutti i suoi progetti – e mi riferisco qui in particolare ad uno degli ultimi, quello di Tvetica – é la considerazione che nel nostro contemporaneo non ci sia più permesso di vivere lo spazio. Scrive Anita: “Siamo dei diseredati che non hanno altro spazio che quello dei loro corpi, e il più delle volte non sanno come viverlo. In questo paesaggio dove il potere si esprime per lo spazio che ci si prende o si possiede per eredità, noi diseredati, inadeguati, siamo schegge, frammenti, occupati a non perdere il senso della vita, quindi il più delle volte introiettati”.

Con questa consapevolezza Sieff continua a dare spazio all’esistenza e alla relazione nel processo creativo. Sappiamo che per quest’artista il tempo non esiste ma esiste lo spazio ed è qui, in questo sovvertimento di pensiero che dobbiamo immaginare la possibilità che la relazione si compia e trovi luogo.

L’ultimo progetto del Tarot-bar, il bar dei tarocchi, è esattamente questa possibilità: lo spazio in cui la relazione intima e profonda e quella pubblica si uniscono e compiono.

Ragionare sull’opera come relazione e, forse come donazione di sé (ogni relazione è in qualche modo un dono di sé) significa dunque pensarla come luogo dell’incontro tra il desiderio di donare e il desiderio di ricevere. Un luogo, quindi in cui s’instaura un rapporto di ospitalità, fosse anche estremamente inospitale, in cui ciò che conta é proprio la relazione: la rappresentazione della relazione e al tempo stesso l’accadere della relazione stessa.

Quella relazione intima e privata con il simbolo che sempre si instaura nella lettura dei tarocchi, nel Tarot-Bar attraverso la semplice convivialità viene trasportata e vissuta nella realtà e nella scena pubblica.

La discussione della dimensione relazionale porta necessariamente a toccare la complessa tematica dell’accoglienza, pratica in cui si manifesta esemplarmente l’incontro con l’altro, la definizione della propria soggettività e della propria territorialità, la messa in gioco della gratitudine e della sfida, dell’offerta e dell’offesa, della liberalità ma anche del contratto, del vincolo, dell’interesse, dell’attesa.

Uno scambio di emozioni e di condivisione di tempi e d'intimità che va formandosi nel momento in cui decidi di metterti nella relazione con qualcuno.

Cosa significa entrare nel Tarot-Bar piuttosto che in un normale caffè? entrando in un Tarot-Bar scelgo di partecipare ad un processo creativo dove la consapevolezza di condividere l’opera ci mette in relazione con quello che si ha intorno. In questo caso attraverso la metafora dei tarocchi è forse più facile trovare risposte alla propria inadeguatezza e al proprio limite. Mettersi nella relazione attraverso le figure degli arcani maggiori significa anche, percorrere la strada principale del simbolo. Simbolo non nel senso di segno, né nel senso di manifestazione sensibile di un carattere, bensì nel senso d’instaurazione e celebrazione di un legame intimo e profondo. Nello spazio pubblico del bar l’opera d’arte viene vissuta come simbolo, è intesa come ciò che riunisce e come ciò che instaura un legame, un legame che ogni volta può essere di ospitalità, seduzione, amicizia, alleanza, fiducia, oppure di sfida, offesa, provocazione, inganno…

Partiamo dunque da qui tenendo ferma la tesi che la relazione rende possibile un pensiero. Ma che tipo di pensiero? Le componenti che si rivelano come le più utili per definire il territorio della relazione sono alla fine quelle che ogni volta riconducono ai linguaggi dell’arte e della creatività: dentro l’immagine o l’azione di un’opera, così come dentro i versi di una poesia ci scambiamo ogni volta relazioni, intimità, segreti, energie senza troppo averne coscienza e senza troppo accorgercene. Sappiamo che la relazione indica l’altrove di un’alleanza perduta, il luogo di un’unità desiderata ma continuamente frantumata, indica un’assenza o mancanza fondamentale nel momento stesso in cui cerca di colmarla.

The Tarot Bar, The Project Room, New York City, 2005.


Scultura sociale n°1.
di Maria Paola Sutto, 1999.

Alcuni vanno al centro, alcuni osservano. Alcuni si lasciano permeare. Le stesse parole e le stesse azioni diventano significati altri quando le persone non sono le stesse.

Quanto possiamo, scambiando esperienze diverse dalle nostre, essere guariti dalla oppressione del vivere? il processo potrebbe risultare misterioso. Ci sono istanti di sospensione durante il farsi di scultura sociale, istanti durante i quali i partecipanti, consapevoli di essere sia artisti sia pubblico, sono all'unisono, sospendono il giudizio, cercando di intravedere la verità celata dietro il comune intento: l'energia che si dispiega e che viene sperimentata nella condivisione .

Chiunque cattura un'emozione ha il suo tesoro da ridirezionare nella propria esistenza.

Scultura sociale n°1 é nata da un sogno. Ed é il sogno di un'artista come Anita Sieff che lo rilascia come entità individuale esistente per espanderlo in una coscienza che vuole cogliere la sfida della comune condivisione. E' una ricerca sull'esperienza dello stare insieme, della cosapevolezza dei limiti di ogni singolo essere umano che deve abbandonare la solitudine della creazione personale a favore di un evento collettivo che si trasforma ed è trasformato ogni volta che si offre.

Gli artisti ospiti contribuiscono a testimoniare la loro esistenza all'inerno dello spazio.

Una quantità di energia è prodotta e connette i partecipanti invitandoli a rivelare prima di tutto a se stessi forme di linguaggio che spesso pensiamo essere andate perdute. Da qui in poi inizia la fase di interazione che produce l'evento: scultura sociale.

Scultura sociale deve la sua ispirazione a Beuys al suo proposito di condivisione. Ronald Feldman: "A quel tempo Beuys mi chiese se poteva fare un lavoro nella mia galleria chiedendomi che la galleria fosse completamente vuota. Il giorno dell'opening arrivarono moltissime persone ma nulla era esposto e la gente incominciava a chedere dove fossero le opere, Beuys rispose che quella era la sua prima scultura sociale e la stava creando insieme a loro".

Scultura Sociale n°1 è ispirtata da ciò, ma va oltre, in un contesto di propositi che sono le interazioni di tutti i partecipanti all'evento. Mai come in questi anni di solitudine interiore schiacciati dall'abbondanza dell'informazione che non ci lascia tempo di elaborare il senso dell'esistenza, sentiamo il bisogno di opere come queste...alla prossima.

Social Sculpture #1, The Kitchen, New York, 1999.


La sperimentazione artistica in Guggenheim Public.
di Sandra Caroldi, 1998.

Anita ci ha condotti a questa esperienza, ci ha "chiamati" qui, ci ha voluti qui... perché ci autorappresentassimo nella nostra elaborazione di amore...

Ci ha proposto una visione dell'amore differente.

Ci parla di amore come metodo, di amore come principio di integrazione... tra persone, tra saperi, tra ricerche...

ma soprattutto tra modalità di comunicare....

Approcci diversi, posti uno accanto all'altro, in sede conviviale,

ma non per questo meno impegnativa, si esprimono nella spontaneità del presente.

C'è chi preferisce comunicare idee consolidate, elaborazioni precotte, ma l'attualità del dire che si dice dicendo, forza costantemente la comunicazione invitandoci a metterci in gioco.

Integrazione è una parola che richiama il discorso ad uscire dagli schemi per crearne di nuovi, in cui altri approcci siano contenuti.

Ma come ci si può integrare con il mondo degli altri se non si è abituati ad un lavoro almeno semiconsapevole di integrazione interna?

Io credo che se ognuno di noi non ha già compiuto una sua, pur parziale, integrazione interiore, mancherà a questo incontro.

Il progetto di Anita Sieff è decisamente portatore di forze dirompenti.

Propone l'amore come tema. L'amore come principio di integrazione, come metodo che consenta il fluire della comunicazione, la rottura dello schema osservatore osservato, l'uscita dalle forme egoiche difensive per incontrare quel tu nei confronti del quale la nostra cultura ha eretto innumerevoli barriere.

E' uno sforzo notevole! Troppo spesso il confronto si traduce in una "erezione mentale" di strutture concettuali che, pur nel loro potere di fascinazione, si presentano chiuse ad un vero dialogo.

La storia di G.P. ci mostra il continuo sforzo di rompere modalità di rapportarsi consolidate in strutture difensive, per istituirne altre più fluide. Là dove, attraverso l'oblio di sé, si vuole liberare la soggettività da se stessa e rinsaldare il legame tra uomo e uomo e tra uomo e natura.

Guggenheim Public, Venezia, 1998.